Circondata da Trump, Putin, Erdogan e da un Mediterraneo meridionale a pezzi, l'Unione Europea avrebbe la sua grande occasione per rimettersi al centro del mondo. No, non al vertice, ma sì, semplicemente al centro.
Al centro, come spazio politico e sociale che al suo interno promuove crescita sostenibile e redistribuita, nuovo welfare universale, cittadinanza europea, diritti certi e inalienabili, partecipazione, innovazione sociale e culturale; e che al suo esterno proietta questa sua identità progressista mettendosi al centro di relazioni multilaterali, mediando storie e culture, est e ovest, nord e sud, accogliendo chi fugge e lavorando per la pace.
Quello che abbiamo visto sabato, invece, è stata purtroppo una celebrazione sterile, una riunione di potenti-che-non-possono, asserragliati in un isolato con intorno una Roma deserta, anzi desertificata per il clima di allarme creato quasi ad arte nei giorni precedenti.
Si dice giustamente che non ha senso paragonare le celebrazioni per i 60 anni europei con il bagno di folla periferico del Papa. È vero ma, come direbbe Nanni Moretti, “non ha senso ma ha senso, non c'entra ma c'entra”. Sì, perché con l'occhio lungo della storia si ricorderà questa giornata come una delle tante che hanno segnato il rapporto tra Palazzo, Basilica e Popolo da Carlo Magno in poi, dalla culla dell'idea moderna di Europa alla UE dell'Euro.
Un rapporto discontinuo, asimmetrico, a geometria e valenza politica variabile. Palazzo e Basilica si sono scambiati la funzione di progresso e conservazione storica e civile molte volte, da quella notte di Natale dell'800. E ieri il bagno di folla del Papa e l'isola dei 27 famosi nel mare deserto di Roma, i messaggi del Papa (“non temete di abbracciare confini”) e quelli dell’UE (“frontiere protette”), non lasciano - purtroppo - dubbi sulle differenti valenze universali delle due istituzioni.
Il giornalismo italiano come al solito si è distinto per il disprezzo verso lettori e cittadini: per giorni ha parlato solo di terrorismo, cecchini e black-bloc, non una parola sulla preparazione del vertice, sulle differenti opzioni in campo, sugli interessi contrapposti, sul ruolo dei diversi paesi (compreso il nostro); nei giorni del vertice, aspettando sangue e devastazioni in strada, ha allietato l'intervallo facendoci sapere del menu del banchetto (un classico, non manca mai), della penna di Junker, della gaffe della Merkel con la Raggi, o della Raggi con la Merkel (non si è capito ancora, e non si capirà mai, chi l'abbia fatta e con chi).
Occorre infatti cercare un po', per capire cosa si siano detti e cosa abbiano deciso, e pare proprio che la collinetta dell'élite europea abbia partorito un sorcetto di dichiarazione. Il solito capolavoro di equilibrismo in cui emerge l'idea di fondo che inchioda l'Europa e le impedisce di assurgere a quel ruolo mondiale detto sopra: crescita nel rigore, e stabilità della moneta, da raggiungere tramite quelle riforme strutturali che finora hanno prodotto il contrario nell'Europa latina, innescando semmai una dinamica inarrestabile di ineguale sviluppo, e senza dimenticare un’eccezione nordica come la Finlandia, ora in una crisi che non ci si poteva attendere.
Tutto questo in piena continuità col recente passato, e poi con qualche timida, triste variazione: frontiere esterne protette (leggi: impedire immigrazione con accordi simili a quello con Erdogan), più coordinamento militare (magari utile, ma perché di armonizzazione fiscale e sociale non se ne parla mai?), e infine le famose “due velocità”, lasciate ancora molto nel vago.
Per il resto, è andata in scena una retorica rivendicazione di tutti i meriti dell'Europa Unita, dimenticando di specificare che nessuno di questi meriti è figlio di questa stagione politica ma di quella del secondo dopoguerra, di cui viviamo certo l'onda lunga ma già soffriamo la risacca.
Perché il punto è questo: il progetto europeo ha bisogno di nuova passione, nuova visione e nuovo slancio, e ciò può venire solo dagli stessi soggetti sociali e dalle medesime intenzioni che animarono passioni, slanci e visioni degli europeisti del dopoguerra: i popoli solidali, il bisogno di pace, di sviluppo equo e sostenibile, di cooperazione, della profonda innovazione che può nascere solo dallo scambio, dal superamento dei confini culturali, mentali, storici e fisici, da un bisogno di sempre maggiore libertà.
Ma se Bruxelles piange, Atene non ride: la scarsa partecipazione alle manifestazioni (attribuibile solo in minima parte al clima di terrore e al discutibile uso della prevenzione/repressione) ci dice che l'Europa non mobilita né a favore né contro di essa. L’Europa è, insomma, una passione triste.
E sì che di offerta ce n'era: dal corteo “ci piace quest'Europa” a quello “ci piace l'Europa, ma non questa” (al netto dell'ironia, quello in cui eravamo anche noi), da quello di destra “no all'Europa, viva l'Italia” a quello di sinistra “no all'Europa, viva la lotta” (al netto della collocazione politica scivolosa e poco sostenibile, pieno anche di sacrosante ragioni). La giornata è passata quindi in una atmosfera sospesa e irreale, con questa Roma deserta e meravigliosa (eh, le due cose si sostengono a vicenda...) e questa distanza, sospesa e reale, tra Città e Palazzo, Popolo e Istituzioni, Presente e Futuro.
Con scarso entusiasmo, dunque, ci si accingeva quindi all'ultimo appuntamento della giornata: Il tempo del coraggio, iniziativa di Diem25, il movimento europeista-democratico lanciato e animato da Yanis Varoufakis. Ma, a discapito della pigrizia, qui si trovava la sorpresa, a cominciare dal format che sembrava adeguarsi ai tempi e ai modi della modernità: teatro, performance e politica tenuti insieme; pubblico e attori in interazione provocata e semipreparata, sorprese di scena. Insomma, vita nova.
E poi l'impostazione di Varoufakis, che forse coglie il punto, e i punti: la sfida è continentale, per macroaree mondiali, e non può essere condotta nazione per nazione contro altra nazione o contro interi paesi-continente, come gli Stati Uniti, la Russia o la Cina. E se la sfida è continentale non la si può lasciar condurre dal personale politico e dalle logiche della governance vista in questi anni, incapace di alzare la testa dai meccanismi finanziari e burocratici per guardare ai quei popoli europei da unire in un progetto nuovo, dotato di una politica di investimenti e innovazione che faccia circolo virtuoso e che produca continuamente cittadinanza europea, il più includente e inclusiva possibile.
E dopo aver riequalizzato paesi e cittadini europei, continua Varoufakis, bisogna mettersi al lavoro su trattati completamente nuovi, che riempiano l'UE di democrazia e cittadinanza nei diritti sociali e civili, per ridare visione e missione a questa nuova vecchia Europa.
Una impostazione, questa, che permette a Varoufakis e alla sua strana creatura - Diem25 - di non cadere in rivendicazioni becere e poco efficaci (“la Germania rapace”, “l'austerity”, “la tecnocrazia”...) e di ricostruire le insufficienze di ogni paese e di ogni area economica dell'Europa che, sommate insieme, ci restituiscono la grande inadeguatezza del continente e delle sue classi dirigenti.
Si dialoga tra europei in questa serata di coraggio, tra europei che amano il loro spazio politico e sociale: catalani, francesi, spagnoli, inglesi (Ken Loach che invia un videomessaggio, così come Noam Chomsky), polacchi. Poi il panel italiano, con tanti di leader di sinistra, ognuno con tante ragioni ma con una propria specifica sinistra, separata da tutte le altre.
Ma divisi e insufficienti, come la sinistra e come l'Europa, non si unisce l'una senza l'altra, non si salva l'altra senza l'una. Per salvare la sinistra e l'Europa, il primo passo si chiama innovazione economico-finanziaria, per fare inclusione. Il secondo passo, invece, dev'essere la formazione di una nuova cultura di governo e.. liberazione.