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Macerata's Burning


Ci voleva Erdogan per avere in Italia un politico che pronunciasse la parola terrorismo.

All’indomani dei fatti di Macerata però le parole più profonde e importanti le pronunciano, ancora una volta, i parenti di una vittima: la mamma di Pamela chiede giustizia per la figlia ma condanna ogni forma di violenza o vendetta dicendo che anche la figlia avrebbe voluto così e sarebbe inorridita davanti alla tentata strage.

Questa madre si va ad aggiungere alla fila di parenti di vittime tragiche: Giuliani, Englaro, Aldovrandi, Sandri, Cucchi, Regeni e purtroppo molti altri ancora. Persone ferite a morte nei loro affetti più cari, unici eroi civili di un’Italia che sa produrne solo nella tragedia. E che non sa riconoscerli né rispettarli, costringendoli ad un calvario decennale per riconoscergli la minima giustizia dovuta. Nel frattempo li insulta, li umilia, li ignora.

Grandi Italiani in una italia piccola piccola, sono le uniche figure alte da cui provengono parole di pace vera, di tolleranza vera, di compassione vera, di convivenza. Dai politici arriva invece tattica, dagli intellettuali drammatizzazioni narcisistiche e dai giornalisti cerchiobottismi ed emotività.

Così Erdogan, mentre bombarda i Kurdi che hanno resistito e vinto per liberarci dall’Isis, nella sua tattica di ricavarsi un ruolo internazionale di primo piano nella lotta al terrorismo (ultimo tentativo di dare forma e ordine ad un mondo sempre più sfuggente), ci dice qualcosa di interessante.

Il terrorista islamico e il suo odio contro l’Occidente uguale al fascista e il suo odio contro l’Islam e lo straniero? È un parallelo possibile? Sì, ma a patto di vedere per intero il fenomeno terrorista contemporaneo. Ma andiamo con ordine.

I principali leader politici italiani, al contrario del leader turco, minimizzano parlando di gesto isolato di uno squilibrato e, se proprio devono condannare qualcosa, condannano la tendenza a farsi giustizia (?) da sé. Assodata la strumentalità tattica dei politici, vale però la pena chiedersi se ci sono attinenze identitarie tra gesto terrorista e atto di un folle. Tra ciò che propone Erdogan e l’interpretazione dei politici italiani.

Parliamo del gesto terrorista, non del Terrorismo che è una strategia politica con una sua scienza e una sua autonomia. Con sue centrali nazionali, internazionali e multinazionali. Non di chi dirige, progetta e finanzia, quindi, ma di chi esegue.

Di questi esecutori da tempo intelligence e ricercatori sociali studiano le biografie dalle quali emergono invarianti rivelatrici: si tratta spesso di giovani dalle aspirazioni frustrate, in condizioni di marginalità sociale e culturale estremamente bisognosi di affiliazioni forti. I percorsi sembrano ricalcare copioni molto simili: il fallimento scolastico e/o sportivo, la marginalità, la gang, lo spaccio, il carcere, la radicalizzazione, l’attentato.

Le prime cinque stazioni di questa via crucis troppo umana sono terreno comune di moltissimi giovani Europei (autoctoni, allogeni o di seconda generazione), la sesta di molti, la settima, fortunatamente, di pochi. L’impressione è che vie crucis come queste sono pane quotidiano anche per moltissimi Italiani, soprattutto i più giovani, e per i loro omologhi Europei, ognuno nella propria nazione, nazione ormai incapace di dare risposte di senso e materiali a quelle vite.

Non tutti passano per il carcere ma per le altre prime cinque tappe sì. Con i fatti di Macerata abbiamo il primo italiano che approda alla settima.

Ma è sulla sesta che val la pena soffermarsi: se sappiamo che il terrorista islamico si radicalizza in carcere attraverso il rapporto con predicatori compagni di pena, con siti specifici in rete e poi grazie ad una catena identitaria e solidale tra carcere e quartiere di provenienza, dove si radicalizza il razzista?

Non dove si forma la xenofobia, la diffidenza, la paura, la chiusura o il rifiuto, e nemmeno l’odio. Ma dove tutto ciò si trasforma e prende, appunto, una forma ben determinata con un apparato ideologico e organizzativo. E soprattutto dove si apre la possibilità, anche solo mentale, all’azione.

È importante capire questo, perché le reazioni in rete sono state per buona parte di simpatia, simpatetiche, un sentire insieme. Quante persone sono già in quella sesta stazione? E quante in una immediatamente precedente? Se non capiamo questo non sapremo mai spegnere sul nascere questo incendio.

Qualcuno dice che a Macerata è stato terrorismo fascista, qualcuno il gesto sconsiderato di un folle. A seconda delle convenienze politiche si smembra in due un fenomeno unico e si sceglie una delle due parti.

Nell’attentatore invece le due dimensioni si trovano insieme. Quella psicosociale con la derivata psicopersonale e quella politica (ricordiamo che sono stati esplosi colpi anche verso la sezione di un partito politico, quindi verso la democrazia), una politica in cui la dimensione psicosociale malata è parte costitutiva. A scanso di equivoci lo ripetiamo: in chi esegue, non in chi progetta, finanzia, arma, organizza.

Ma chi progetta, finanzia, arma, organizza è anche chi radicalizza, è il nemico che troviamo in quella sesta stazione e che mai si farà trovare nella settima, dove invece manderà povero contro povero, marginale contro marginale, escluso contro escluso.

In quella via crucis tocca andarci, invaderla per conoscerla e spezzarla. Per inchiodare alle loro responsabilità morali e penali i radicalizzatori e per costruire opportunità e comunità accoglienti per tutti in prossimità della prima stazione, quella del fallimento, oggi troppo affollata, isolata, desolata.

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